Liceo scientifico Isacco Newton di Roma

ANDREOLI: Buongiorno. Mi chiamo Vittorino Andreoli, faccio lo psichiatra e ho dedicato tutta la mia vita a cercare di capire il comportamento dell'uomo ed in particolare il comportamento di voi ragazzi. Due degli atteggiamenti più importanti dell'individuo nella società sono la competizione e l'affermazione di sé. Questo è il tema di cui oggi ci occuperemo: cominciamo a presentarlo con una scheda.

Sostenere che la competizione non faccia parte della natura umana è arduo, tant'è vero che senza competizione l'umanità stessa non esisterebbe affatto. La più antica tra le forme di competizione infatti è la selezione della specie, quel meccanismo che ci ha consentito di essere quel che siamo. La teoria darwiniana dell'evoluzione da questo punto di vista parla chiaro: "Gli esseri viventi sono il risultato di una selezione violenta, che ha premiato le specie capaci di sopravvivere in un determinato ambiente. L'esempio classico è quello della giraffa: di fronte alla penuria di arbusti, un gruppo di erbivori, dotati di collo lungo e quindi in grado di raggiungere il cibo ad altezze per altri impossibili, ha trovato il nutrimento sufficiente per sopravvivere e soprattutto per riprodursi, garantendo così la propria continuità. A salvare noi esseri umani, viceversa, sembrano siano stati la dimensione del cervello e soprattutto le mani che, grazie alle caratteristiche del pollice, hanno consentito ai nostri antenati di servirsi di qualche utensile. Più in generale la selezione naturale è il mezzo a cui ci affidiamo per garantire la nostra continuità e quindi per affermare la nostra presenza nel mondo. Naturalmente siamo impegnati anche in altre forme di competizione, dalla lotta per il successo negli studi e nel lavoro, a quella nello sport, a quella in amore, alla rivalità - per dirla con Freud - con i nostri padri per conquistare le attenzioni delle nostre madri. Ma la prima forma di competizione è quella biologica. Del resto il nostro stesso concepimento è frutto di una competizione: la gara tra un milione di spermatozoi che si danno battaglia per arrivare primi a fecondare l'agognato ovulo.

STUDENTESSA: Buongiorno, professore. Volevo chiederLe se è vero, come dice la scheda, che l’evoluzione dell'animale uomo sia sostanzialmente legata a fenomeni di affermazione biologica: il debole è destinato a soccombere per questioni biologiche e genetiche. Ne deriverebbe, quindi, che l'affermazione di sé è assolutamente scevra da qualsiasi questione etica.

ANDREOLI: L'antropologia e la storia hanno dimostrato che la lotta è stato il filo conduttore dell’evoluzione dell’umanità. E’ però possibile non ripetere la storia: oggi ci potremmo chiedere se l’uomo non si sarebbe potuto evolvere attraverso la cooperazione, magari diventando un essere migliore. Facciamo un esempio: in una classe scolastica è meglio la competizione, oppure si ottengono maggiori risultati creando una sorta di laboratorio col quale affermare il gruppo-classe piuttosto che il singolo individuo? A me piace lasciare aperta la risposta: la storia del passato è già stata scritta, ma non è detto che non si possa svilupparla diversamente per il futuro, caratterizzando l'uomo sul piano della cooperazione e non più della lotta. Non credo si possa parlare di etica quando seguiamo degli istinti: se il nostro comportamento è determinato dal codice genetico esso non può diventare materia di etica. L’uomo si interessa al problema etico perché si pone il problema della scelta: se faccio del male ad un mio simile è perché voglio farlo, anche se non ne ho più la necessità.

STUDENTESSA: Quindi esiste la possibilità di non determinazione delle azioni dell’uomo, la possibilità della scelta? Lei ci crede fermamente?

ANDREOLI: Non solo credo in tale possibilità, ma ognuno di noi può rendersene conto. Sicuramente ogni giorno tu sperimenti l’opportunità di fare certe cose scartandone altre: la scelta è quindi nell'esperienza di ciascuno di noi. Anche nel cervello - nel grande organo che determina il comportamento dei singoli nella società - notiamo che l’evoluzione ha fatto sviluppare la parte del nostro encefalo, quella dei lobi frontali, in cui sono localizzate tutte le attività dell'apprendimento: la memoria, la capacità di fare e di volere delle cose e così via. Questa parte "plastica" del cervello è quella che ci permette di fare certe cose e non altre, di impararne alcune e non altre: è quindi probabile che possiamo difendere la libertà anche sulla base delle conoscenze sulla biologia del cervello.

STUDENTESSA: Qual è la discriminante fra le facoltà che sono determinate dall’istinto e quelle che invece risultano più plastiche?

ANDREOLI: Ciascuno di noi risponde in modo deterministico al proprio bagaglio genetico, che in qualche modo è da considerare come la memoria di tutto il passato. D’altra parte, grazie alla parte plastica del cervello, abbiamo la possibilità di stare nelle nostre esperienze e di convogliarle in una storia che appartiene al presente o, addirittura, di immaginare il futuro, organizzarlo e programmarlo. Il nostro cervello è un terminale: viene sollecitato dalla nostra storia passata tramite azioni in gran parte determinate, ma è anche lo strumento che recepisce la nostra esperienza e che ci consente di vivere la nostra attualità. Esso è straordinario, perché ci fa capire che noi - forse a differenza di altre specie viventi - possiamo mutare. Abbiamo quindi la capacità di cambiare l'imperativo della lotta e dell'affermazione in un imperativo della cooperazione e dell'amore.

STUDENTESSA: Allora Lei ha una visione kantiana del mondo e della mente umana…

ANDREOLI: Kantiana per ciò che concerne la possibilità di una libera scelta. Ma mentre ai tempi di Kant si trattava di un argomento squisitamente filosofico e i biologi, da parte loro, erano dei meccanicisti, oggi questa certezza ci deriva persino dalla scienza. Forse tra due anni avrai la possibilità di dire: "Ricordo che due anni fa, a scuola, ho parlato col professor Andreoli." infatti oggi, durante questo incontro, si sono stabilite delle strutture cerebrali nella parte frontale dell’encefalo: questa esperienza ha fatto sì che si modificassero alcune parti del cervello. Se oggi non fossi venuta qui non si sarebbe mai formato un aspetto del tuo comportamento. La straordinarietà di questo momento storico è data dalla nostra conoscenza del fatto che il comportamento è modificabile e che ciascuno di noi può decidere di comportarsi in modo completamente nuovo: se l’odiare il proprio nemico è un imperativo genetico, potremmo persino arrivare ad affermare di volerlo amare e ad assumere un comportamento in qualche modo "antigenetico". Ed ecco perché, ripeto, oggi parliamo di affermazione del sé e di competizione: perché sappiamo che è possibile pensare ad una società di cooperazione.

STUDENTESSA: Ma questo ribalta totalmente la visione freudiana dell'uomo in quanto essere determinato dai suoi istinti più reconditi e più profondamente riposti nell’inconscio?

ANDREOLI; Freud, come sai, iniziò a proporre le proprie idee nel 1900, vale a dire cent'anni fa. Proprio nel 1900 uscì il suo libro L'interpretazione dei sogni, che tratta dell’inconscio. Egli sicuramente affermò che il nostro comportamento è in qualche modo guidato dall'inconscio, ma non disse mai che quest’ultimo è genetico o meccanico, perché, al contrario, possiede dei conflitti che hanno un’origine storica. Pensa all'importanza degli studi sul rapporto madre-bambino: Freud diede l'avvio a questi studi affermando: "Il modo in cui una madre si rapporta al figlio - oggi noi includeremmo anche il padre - influenzerà la futura attività di quel bambino." Nel bambino possono quindi emergere delle nevrosi che in seguito diverranno inconsce e che guideranno il suo comportamento. Il rapporto tra determinismo e libertà è un vecchio problema che ha fatto discutere tanto gli psicologi, quanto – e soprattutto – i filosofi. Ma oggi, ripeto, abbiamo a disposizione anche dei dati biologici. C'è un gruppo di biologi che si definisce "I biologi della libertà", un'affermazione un po' estrema che però rende bene l’idea dell’evoluzione della disciplina: fino a trent'anni fa non si sapeva come uscire dal rapporto con la macchina e si affermava: "Ti sembra di essere libero, ma in realtà non lo sei." Oggi invece - attraverso gli studi sul cervello e in particolare sulla sua parte plastica relativa all'apprendimento e alla memoria - sappiamo che dentro di noi acquisiamo elementi non necessari che condizionano il nostro agire.

Nella scheda si è parlato di affermazione del sé: siccome avete tirato in ballo Freud, è importante fare una piccola distinzione tra io e . Freud non parla tanto del sé, quanto dell’io e della sua struttura, e dice: "Dentro ciascuno di noi c'è una organizzazione composta dall'es, dall'io e dal super-io." Quando oggi ci riferiamo al sé, stiamo in qualche modo parlando della dimensione sociale dell'io. L'io è ciò che di strutturale abbiamo dentro di noi: è come se analizzaste una statua e descriveste come è formata. Mentre il sé indica invece il modo in cui quella statua si rapporta agli altri ed ha una dimensione e una funzione sociali. Quando parliamo di "affermazione di sé", ci riferiamo al tentativo di trovare un nostro significato nella comunità e nel mondo: tale significato è certamente fondamentale perché, se risulta assente, proviamo un senso di svuotamento che può degenerare in una forma depressiva. La solitudine è un sentimento molto diffuso nel mondo giovanile. Non è la stessa cosa che rimanere isolati su di una montagna: vuol dire non essere percepiti, non avere un senso in mezzo alla gente, sentirsi soli tra tante persone. Si ritrova solo colui a cui nessuno attribuisce un significato, colui che vive ma è inutile. E’ molto importante che voi pensiate al sé come a quella caratteristica della vostra personalità che vi permette di relazionarvi con gli altri; la parola "io" viene usata da colui che, in fondo, è ancora dentro se stesso: il narciso. Una delle patologie dell'affermazione è data proprio dal narcisismo: Narciso è un personaggio della mitologia che vide la sua immagine riflessa in uno specchio d’acqua, si credette bellissimo, si innamorò di sé, cercò di abbracciarsi e morì affogato. Il sé è invece quella parte straordinaria a cui oggi diamo importanza: costituisce il rapporto che sussiste tra ciascuno di voi. E’ importante che il sé tenda più alla cooperazione che non all’esclusione perché, se c'è grande competizione, per affermarvi dovrete sempre eliminare qualcuno.

STUDENTESSA: Le volevo chiedere: c'è una differenza di significati tra l'affermazione dell'io e l'affermazione del sé? E in cosa consiste?

ANDREOLI: Per affermare il tuo sé hai bisogno dell'altro: l'amore, ad esempio, è una tipica espressione di relazione del sé; l'io è invece un qualcosa che può affermarsi anche in assenza degli altri, si comporta come se gli altri non fossero necessari e costituissero solo una platea. Nel filmato abbiamo visto uno spezzone tratto da "Tempi moderni" di Charlie Chaplin; lo stesso Chaplin interpretò Hitler in maniera magnifica in un altro film ("Il grande dittatore"N.d.R.). Il dittatore è colui che ha un proprio io da affermare e che considera tutti gli altri come una sorta di platea con la quale non scambiare mai una reale relazione affettiva: l'altro serve semplicemente a poter essere utilizzato e diviene quasi un’estensione del proprio io. Il sé è invece ciò che lega un individuo all'altro, e tale legame affettivo può sfociare nell'amore: è come se una persona si sentisse insufficiente e per questo avesse bisogno dell'altro; l'amore è bellissimo perché in esso si riesce a vivere la limitazione del proprio sé. Tramite il sé si può avere la possibilità di completarsi nell’altro, mentre l'io si sente onnipotente e pensa di poter dominare gli altri.

STUDENTESSA: Non crede sia anacronistico pensare ad una forma di comunicazione efficace, ovvero ad una intuizione reale degli altri? Lei diceva che il concetto di sé si relaziona agli altri: questo sottintende la possibilità e la realtà degli altri in quanto interlocutori vivi e veri. L'io, invece, non fa altro che specchiarsi negli altri. Mi chiedo se quest’ultimo aspetto non sia vero: vorrei sapere se, in fin dei conti, non siano tutti in rapporti speculari gli uni con gli altri, anche nelle relazioni d'amore. Mi domando se esista effettivamente un qualcosa inteso in un senso quasi noumenico, tanto per ritornare a Kant…

ANDREOLI: Il sé è una caratteristica di ciascuno di noi. Mentre fino ad alcuni anni fa, la psicologia era una "psicologia dell'io", adesso è mutata in una "psicologia del sé" proprio perché quest’ultimo ha una valenza, perché ciascuno di noi ha bisogno di legami: il sé esprime questa necessità. Tu hai parlato di concetto di sé, ma non si deve far riferimento ad una situazione astratta che si può accettare o non accettare. E' piuttosto un’esperienza di vita: si ha bisogno dell'altro, e tale necessità affettiva fa sì che ciò che si dà è in funzione dell'altro. Mi sembra che le psicologie del sé siano molto più orientate verso il sociale perché si fondano su tale caratteristica dell'uomo, quella in base alla quale pensiamo che, se un'affermazione di sé è importante, questo elemento comporta anche il riferimento al gruppo e alla comunità. Io sono particolarmente favorevole ad una società del sé e della cooperazione.

STUDENTE: Nel Romanticismo l'affermazione del sé ha portato insigni autori, quali il Foscolo, all’esaltazione del suicidio. Cosa spinge al suicidio una persona che vuole affermare la propria individualità?

ANDREOLI: La tua è una domanda molto stimolante. Innanzitutto si deve distinguere tra diversi tipi di suicidio. C'è il suicidio dovuto alla depressione - quella a cui accennavo prima – in cui il soggetto si sente privo di senso e teme anche di far del male agli altri: il sentirsi inutili viene quindi percepito come una colpa a causa della propria pericolosità. Ci si sopprime perché si avverte di non significare nulla e di essere di danno per gli altri. Ben diverso è il suicidio alla Nietzsche, ad esempio, nel quale si desidera sfidare la morte: "Io non voglio essere preda della morte, non voglio che la morte decida per me: sarò quindi io a guidare la mia uscita da questo mondo". In questo secondo caso il suicidio non è depressivo, bensì titanico: sfido la morte e la vinco. Ovviamente i significati sono diversi. Schematicamente si potrebbe dire che il suicidio del depresso è dovuto al fatto di non riuscire a stabilire dei legami ed alla convinzione della propria incapacità di farlo, per questo ci si sente privi di qualsiasi significato. E’ certamente una "patologia del sé": a volte il depresso non riesce a comprendere che l’altro gli sta invece fornendo degli elementi. Il suicidio titanico è, al contrario, un’affermazione di onnipotenza, sempre concomitante ad una patologia dell'io.

STUDENTESSA: Buongiorno. Prima stava puntando l’accento sulla collaborazione piuttosto che sulla competizione e sull’esclusione. Non pensa, però, che con la collaborazione si possa arrivare a livellare le diversità tra gli uomini, che sono in parte date proprio dalla diversa affermazione degli individui nella sfera sociale?

ANDREOLI: C’è sicuramente questo pericolo, vorrei comunque tornare all’esempio della classe. Poniamo che tu abbia l'obiettivo di essere la più brava in filosofia e che debba lottare con colui che è più vicino al tuo posto: ovviamente, per batterlo, elaborerai delle strategie che non hanno nulla a che fare con la filosofia. Supponiamo, invece, che lo scopo appartenga all'intera classe e che l'obiettivo non consista tanto nell’affermazione del singolo, quanto del gruppo: è possibile pensare ad una società impegnata a raggiungere degli obiettivi in cui tutti danno un proprio contributo e per i quali non vince il singolo. Penso che la nostra società - volendo la nostra società nazionale, con pregi e difetti- sia sostanzialmente priva della capacità cooperativa, vale a dire del possesso di scopi comuni, mentre, al contrario, ciascuno di noi ha dei desideri e dei sogni che forse non realizzerà mai. Tutta la vita è quindi dominata dal singolo e, in particolare, dall'invidia: una patologia per cui ognuno è geloso di ciò che ha l’altro e fa di tutto per ottenerlo; una volta ottenuto, comincia a desiderare e a provare invidia per un’altra cosa, finendo per ricercare perennemente ciò che non ha e non accorgendosi di ciò che già possiede. Credo sia possibile la creazione di una società con degli obiettivi sociali: la tua classe non è l'insieme di venti "io", ma è un’unità strutturata all’incirca come un’orchestra: se il flauto o il violino pensassero: "Voglio far vedere quanto sono capace" combinerebbero un disastro. Non credo affatto che gli scopi sociali portino necessariamente ad un appiattimento, ritengo invece che si potrebbe vivere in maniera più tranquilla: probabilmente queste strategie di gruppo porterebbero al regresso delle tante nevrosi causate dall’invidia.

STUDENTE: Poc'anzi ho detto che nel Romanticismo molti autori insigni sono stati spinti a pensare al suicidio in quanto affermazione del sé...

ANDREOLI: Perché in quanto affermazione del ?

STUDENTE: Allora prima ho sbagliato...

ANDREOLI: Sì, ma non ha importanza. Ho portato altri esempi di suicidio, ho parlato anche delle patologie di questa società così competitiva.

STUDENTE: Buongiorno professore, volevo sapere perché tra gli oggetti in studio aveva portato un motorino.

ANDREOLI: E’ indubbio che il motorino sia innanzitutto un oggetto che amate in maniera particolare, inoltre esso esprime abbastanza bene quei vantaggi dati dalla capacità di muoversi in modo più rapido ed agile. Il motorino può però diventare anche una sorta di simbolo di affermazione: potrebbe venir usato per mostrare le proprie abilità, per far vedere quanto si è bravi a guidare su un'unica ruota o ad andare contromano, per dimostrare il proprio coraggio tramite delle gare. Esso costituisce un esempio per mostrare come un oggetto utile possa diventare un teatrino in cui mettere in scena le proprie capacità ed il proprio agonismo. Anche tramite il motorino può nascere una lotta, un antagonismo "pseudoeroico" e un tantino ridicolo che potrebbe divenire pericoloso.

STUDENTE: L'affermazione esasperata di se stessi può spingere l'individuo a voler annullare l'altro. Da un punto di vista etico come possiamo dare una spiegazione a questo problema?

ANDREOLI: Hai ragione: se una persona ha un forte bisogno di affermarsi, allora si concentra totalmente sul proprio nemico. E' ciò che chiamiamo la "cultura del nemico": il mio scopo è quello di essere il più bravo, quindi devo tener d'occhio colui che mi sta immediatamente dietro per poterlo eliminare, perché è la persona che potrebbe portarmi via il primato. Ritengo che tale agonismo possa avere delle regole: nello sport, per esempio – nei casi in cui non si ricorra a doping o ad altri imbrogli – vige un codice che non è possibile definire "non etico". Se, al contrario, l’agonismo risulta privo di regole e ci si ritrova a sopraffare l'altro imbrogliandolo, allora siamo in presenza di un vero e proprio comportamento "non etico". Facciamo un esempio banale ma importantissimo: la raccomandazione. Essa costituisce un comportamento assolutamente non etico, perché esclude una persona per sostenere l'oggetto del favoritismo: con essa non si raccomanda semplicemente il proprio figlio o il proprio nipote ma, se il parente in questione è efficace, indirettamente si butta fuori il figlio di un altro. Anche un modo di fare banale come questo - banale in quanto abituale – risulta profondamente legato alla competizione ed è assolutamente fuori da ogni norma etica.

STUDENTESSA: Perché ha portato anche uno specchio?

ANDREOLI: Mi si potrebbe chiedere: "Ma che bisogno c'era di portare uno specchio? Ce l'abbiamo tutti nella borsetta!" Forse i maschietti non ancora, ma spesso anche loro si fermano davanti alle vetrine per specchiarsi. Lo specchio serve a chiedersi se si è più condizionati dal proprio io che non dalla comunicazione e dalla relazione con gli altri, perché in esso un individuo vede se stesso e sovente, non piacendosi, cerca la metamorfosi o il trucco. Tutti gli imbellettamenti e il particolare abbigliamento che usate riguardano il vostro io, mentre sarebbe bene che attraverso lo specchio vedessimo solo ciò che siamo là davanti e ci preparassimo a relazionarci con gli altri. Come sarebbe bello se, specchiandoci, non si notasse solo il nasino, o gli occhi, o un drammatico brufolo, ma si vedesse soprattutto una persona che si può relazionare ad un'altra persona, un singolo che è parte di una società. Lo specchio può riflettere solo te stesso, oppure può diventare un elemento per andare oltre, per poter scoprire un individuo che ha un grande significato nonostante il brufolo o le orecchie non perfette, nonostante non assomigli alle top model - che vengono presentate come modello, appunto. Lo specchio è quindi un interrogatorio e un interrogativo allo stesso tempo: non bisogna mai fermarsi alla superficie, ma si deve sempre trovare il senso del sé, quel qualcosa che riguarda tutta la propria persona.

STUDENTESSA: Lei prima diceva di ritenere possibile la creazione di una società basata non già sulla competizione, bensì sulla cooperazione. Ma come è possibile arrivarci? Non pensa che l'uomo abbia un innato desiderio di primeggiare sull'altro?

ANDREOLI: Al giorno d’oggi si tende ad invidiare, a voler essere primi, a non accettare la sconfitta e a reagire con rabbia: se in macchina non dai la precedenza ad un automobilista, quello si sente leso nel suo diritto di essere e di passare per primo, e allora ti riempie di parolacce. Ritengo - non solo io, naturalmente - che questo sia frutto di una cultura, la quale è a sua volta l’effetto di qualcosa di non necessario che abbiamo appreso dalla società. Si potrebbero fare tanti esempi, innanzi tutto te ne vorrei fare uno storico: subito dopo che Darwin presentò la sua importantissima teoria, ci fu un biologo un po' meno importante di lui, tale Kropotkin, il quale prospettò, con esempi presi dalla biologia, che ciò che Darwin aveva letto come lotta per la sopravvivenza poteva essere spiegato tramite la cooperazione. Questo è un fatto storico, ma oggi Kropotkin viene ricordato più per la sua partecipazione ad un movimento anarchico che per i suoi contributi alla biologia. A tutt’oggi esistono delle società che potremmo definire "orientali" - ma in senso molto, molto generale – nelle quali la competizione è di parecchio meno forte che da noi. Vi sono delle società storiche dove tale competizione è assente: durante il periodo in cui ho abitato in Africa, vivevo presso una comunità di Dogon. All’interno di tale comunità sussisteva un grande legame di villaggio, ma non c’era affatto la competizione che c'è altrove. Vi sono quindi degli esempi storici atti a dimostrare che l’ipotesi della cooperazione può essere portata avanti.

STUDENTESSA: Secondo Lei, perché oggi siamo arrivati ad una società presso la quale la parola d'ordine è "competizione"?

ANDREOLI: Credo per errore: a me non piace questa società, penso si sia capito. Ti racconto una storia: qualche mese fa ho visitato un asilo giapponese dove ci sono bambini di tre o quattro anni già capaci di usare il computer e già indirizzati all’apprendimento di una lingua straniera; alcuni di loro, quelli che lo studiano, mi hanno persino accolto dicendomi delle frasi in italiano: in Giappone c'è una grande passione per la musica lirica, e ovviamente tale passione viene trasmessa ai bambini. Ora, in questo asilo c’è una straordinaria competizione, perché vi vige la regola in base alla quale chi va meglio all'asilo potrà accedere alle più importanti scuole elementari e sostare un gradino più in alto rispetto agli altri nella scala della competizione. Tutto questo non è determinato: è, al contrario, il frutto di una scelta sociale che ha costi alti in termini di follia – ovviamente, facendo lo psichiatra, guardo ai comportamenti patologici. Per ogni trionfatore, per ogni festeggiamento in onore di un vincente, vi sarà sempre un perdente, un escluso in preda alla sensazione di non possedere nessun significato. Credo sia possibile pensare a delle società diverse: forse è solo un’utopia, ma penso che anche le utopie possano essere utili, specialmente se remano contro tali atteggiamenti di assurda competizione.

STUDENTESSA: Lei afferma, secondo me giustamente, che il principio di competizione non è naturale. Nel momento in cui si è parlato dello specchio, però, mi è venuto in mente un aneddoto raccontatomi dal mio professore di filosofia: al Museo Nazionale delle Scienze di Parigi, mi pare, c’è uno specchio in grado di fondere i tuoi tratti somatici con quelli della persona che è seduta dall'altra parte dell’oggetto, tramite il cambiamento dell’angolo di riflessione. Il mio professore raccontava il terrore che tale effetto aveva suscitato in lui. Probabilmente il forte istinto di conservazione della propria identità - che è sempre una negazione dell'alterità – è invece naturale e ne facciamo esperienza quotidianamente.

ANDREOLI: Perché non credi sia possibile mantenere la propria identità all'interno del gruppo? Non penso che il primo violino di un'orchestra perda la propria identità di violinista nel momento in cui cerca di ottenere un risultato assieme alla tromba. L'idea che la comunità sia opposta all'individualità è il frutto di una errata interpretazione dell'individualismo.

STUDENTESSA: Cercando su Internet, abbiamo trovato molto poco circa la competizione, e quel poco verteva sull'ecologia o su argomenti prettamente scientifici. Per quanto riguarda l'egoismo e l'invidia nella società, gli unici siti trovati analizzavano la questione dal punto di vista religioso e cattolico. Le volevo chiedere: perché soltanto la religione, almeno su Internet, si interessa a tale problema? Non ci sono associazioni che, distaccandosi dalla religione, possono tentare di risolvere il problema da un punto di vista semplicemente "umano"?

ANDREOLI: Innanzitutto la religione dovrebbe essere un contenitore. La sopraindividualità, ossia l'idea di un Dio che è padre di tutti e che pone tutti - almeno per questo aspetto - sullo stesso piano, è certamente un'idea forte. Penso quindi che le religioni dovrebbero maggiormente sottolineare questa idea, forse più di quanto non abbiano mai fatto. Rimane comunque molto preoccupante che le grandi religioni monoteistiche si possano porre l’una contro l’altra e possano dare il via ad integralismi e a posizioni esasperate. Anche tra le religioni ci può essere competizione: una rivalità non tanto finalizzata all’esclusione dell'altra, quanto a dimostrare che l’altra non è vera. A me pare che la religione dovrebbe essere un elemento atto a calmare tale bisogno di onnipotenza del singolo, a far sì che la società non sia più l’insieme di tanti io, di tante monadi che vedono l'altro solo come un oggetto da superare o addirittura da eliminare.

Vorrei chiudere questo incontro con voi dicendovi ancora una volta che ciascuno di noi deve essere conscio del fatto che il proprio significato principale è nella comunicazione con l'altro: non solo nella comunicazione fredda e razionale, ma soprattutto in quella affettiva. I giovani d’oggi sembrano sicuri, ma se andiamo ad osservarli in modo un po' più approfondito, scopriamo che hanno tanti bisogni affettivi e che la loro paura maggiore è quella di rimanere soli, di essere estromessi dal gruppo e dai legami sociali.

Vi saluto e vi ringrazio per l’attenzione.

Tratto da: Edoardo Boncinelli, Il cervello , la mente e l’anima- .Mondadori Milano,1999

Il linguaggio

Siamo così arrivati alle funzioni mentali superiori più evolute e più specifiche della nostra specie, come il linguaggio e la coscienza. Il linguaggio è una facoltà prettamente umana, forse la più squisitamente umana. Molti individui di varie specie animali comunicano fra di loro, cioè si scambiano segnali e indicazioni su questioni standard che possono riguardare lo status del singolo individuo e il suo atteggiamento del momento, o alcune caratteristiche rilevanti del mondo circostante, quali la presenza di cibo o di pericoli. Molto di più gli animali, anche quelli cosiddetti intelligenti, non si comunicano. Gli uomini invece si comunicano di tutto, compreso il nulla. Il nostro linguaggio deriva da una nostra facoltà mentale innata e ha delle proprietà stupefacenti sia per quanto concerne la sua potenza, sia per quanto concerne la sua futilità. Nessuno ha mai dimostrato che il linguaggio serve a qualcosa, né che possa essere stato originariamente selezionato per la sua utilità. Probabilmente ce lo siamo trovato, magari come sottoprodotto di qualche sconvolgimento del nostro genoma, e ce lo siamo tenuto. Si direbbe tutto sommato che ne abbiamo fatto buon uso. È innegabile infatti che con il trascorrere dei millenni il possesso e l'uso del linguaggio, soprattutto da quando si è pietrificato nella scrittura, abbiano finito per avere anche un rilevante valore adattativo e magari selettivo.

Abbiamo già visto che esistono almeno due caratteristiche salienti che distinguono il nostro linguaggio da quello di ogni altro animale: la sua arbitrarietà e quindi la sua convenzionalità da una parte e la sua articolazione dall'altra. La corrispondenza fra una nostra parola e il suo significato è largamente arbitraria, come lo è più in generale quella fra un nostro atto comunicativo e il suo significato. Non c'è cioè una corrispondenza necessaria o innata fra atti comunicativi e significati da essi veicolati, come invece si osserva per gli altri animali, anche quelli che si avvalgono di una organizzazione sociale molto sofisticata. Una determinata comunità di parlanti deve quindi più o meno tacitamente stipulare e rispettare una convenzione che fissi almeno momentaneamente i significati della maggior parte delle parole e delle frasi. Il complesso dei nostri atti linguistici ha quindi anche lo scopo di tenere continuamente aggiornati tutti quanti noi sullo stato di questa convenzione.

Strettamente associata a tale arbitrarietà, e forse ancor più rilevante, è la nostra capacità di articolare la nostra espressività. Nelle forme di comunicazione tipiche di molte specie animali, costituite di suoni, di canti, di ghigni e di grida, a ogni significato corrisponde uno specifico significante, e solo quello. Tale significante è a sua volta un tutt'uno e non rappresenta una combinazione di elementi più semplici, dotati di una loro vita autonoma. Nel nostro linguaggio esistono invece unità di significante fatte di altre unità significanti più elementari, combinate fra di loro in vari modi alternativi. Il discorso è fatto di frasi e queste di parole e le parole di suoni. Una struttura del genere permette di smontare e rimontare ogni frase a piacimento e di crearne un numero praticamente infinito, garantendoci così un'espressività praticamente illimitata e favorendo il raggiungimento di livelli sempre più elevati di arbitrarietà, di convenzionalità e di gratuità.

L'uomo sa o crede di sapere a proposito del linguaggio molte più cose che a proposito di qualsiasi altra sua facoltà. Il fatto è che la struttura del linguaggio è tale che deve necessariamente contenere aspetti teorici. Il linguaggio deve cioè contenere in sé una teoria del linguaggio, fosse pure embrionale e schematica. E infatti sul linguaggio e soprattutto sulla sua grammatica si è sempre teorizzato, almeno da quando ci sono le scuole. Se poi si sappia veramente tutto ciò che è rilevante per la comprensione della nostra facoltà mentale del linguaggio è un altro discorso. La scienza che studia il linguaggio, la linguistica, è cresciuta rigogliosa come scienza autonoma in uno splendido isolamento rispetto ad altre scienze umane e non c'è dubbio che oggi si presenti come una disciplina molto evoluta e avanzata, di fatto uno dei pilastri della moderna scienza della mente. Anche la storia della linguistica è un argomento affascinante e illustra un'avventura intellettuale di enorme respiro.

[...] E c'è «qualcuno» dentro di noi che ne osserva il risultato? In altre parole, esiste un Io centrale, un cervello del cervello, una funzione mentale suprema a cui tutto viene riferito e che rappresenta la sede dell'autocoscienza? C'è stata molta discussione sull'argomento negli ultimi anni, soprattutto in connessione con la questione se un computer molto sofisticato, o un essere diverso dall'uomo, possano avere del pari una coscienza. Cercheremo di riassumere per sommi capi questa discussione,

ma è opportuno avvertire che alla fine della voce Coscienza del suo apprezzatissimo Dictionary of Psychology Stuart Sutherland afferma che sull'argomento non è stato scritto in definitiva «niente che valga la pena di leggere».

La risposta più istintiva e immediata alla domanda se un computer potrà mai possedere una coscienza è categoricamente negativa. La tradizione filosofica e culturale dell'uomo moderno occidentale indica nell'Io penso cartesiano o, se vogliamo, nell'Io trascendentale kantiano il centro del nostro stesso essere. Senza di questo noi non saremmo noi e forse niente sarebbe o verrebbe conosciuto. E un computer non potrà mai concepire un Io penso. Altri contestano tale visione e negano che ci sia un referente ultimo, un Io supremo a cui tutto viene riportato in un contesto che Daniel Dennett ha definito come un Teatro Cartesiano. Secondo questi autori, fra i quali si iscrive il Dennett stesso, non esiste un simile centro organizzatore delle nostre percezioni e dei nostri pensieri, esiste bensì una pluralità di centri corticali e subcorticali che disbrigano le loro funzioni in modo relativamente autonomo. Questo concetto di sostanziale democrazia all'interno della società della mente lascia un po' perplessi, data la natura manifestamente gerarchica delle funzioni espletate dal sistema nervoso centrale. È vero però che quando si giunge al livello della corteccia cerebrale, la gerarchizzazione delle funzioni nervose si appiattisce e si allenta per lasciare il posto a un notevole grado di autonomia delle parti e a un apprezzabile livello di comunicazione e di concertazione fra pari grado.

Questo in verità vale anche per tutte le cellule del nostro corpo. Non esiste un centro biologico del corpo. Se per alcune funzioni il cervello e la corteccia agiscono come centro regolatore e per altre funzioni esiste di volta in volta una centralizzazione delle reti regolative, la stragrande maggioranza degli eventi cellulari, nella vita adulta come durante lo sviluppo embrionale, va avanti da sé. Ciascuna cellula sa quello che deve fare e lo fa, consultando le istruzioni del proprio patrimonio genetico e calibrandone volta per volta la realizzazione sulla base dei segnali che giungono dalle altre cellule.

Tratto da: Edoardo Boncinelli –Le forme della vita –. Einaudi

….Gli animali si basano su una serie di comportamenti innati, sia per quanto riguarda il procacciamento del cibo e la difesa dai nemici naturali sia per quanto riguarda i vari tipi di interazione con i propri simili, dell’uno e dell’altro sesso. Le strategie possibili sono per loro in numero limitato e più o meno strettamente catalogato. L’uomo si è trovato invece davanti a un numero sempre maggiore di strategie possibili, sempre più complesse e imprevedibili, non escluse quelle implicanti l’inganno e la menzogna. E si è trovato soprattutto davanti al fatto che una data strategia non va bene per ogni circostanza e occorre sviluppare la capacità di scegliere di volta in volta la strategia più efficace. La scelta della strategia più efficace è ciò che ha spinto più di ogni altra cosa il nostro cervello sulla via dell’espansione. Come dire che è la libertà che ha generato l’intelligenza e viceversa.

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A un certo momento sono apparse poi anche la coscienza di sé e il linguaggio, due facoltà che ci appaiono quasi spuntate dal nulla. La loro comparsa è probabilmente spiegabile in termini di un complesso di eventi genetici accidentali, verificatisi spontaneamente o come conseguenza per quanto indiretta di altri eventi caratterizzati da un valore selettivo più alto e immediato. Non c’è dubbio però che una volta comparse, queste due facoltà siano state rapidamente inglobate nel modo di essere uomo e abbiano potentemente contribuito a modellarne l’essenza.

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In questi ultimi decenni abbiamo appreso che anche l’universo nel suo complesso ha una storia.

…ha subito un gran numero di vicissitudini, a livello globale e su scala locale, che hanno condotto al suo stato attuale che contempla tra le altre tantissime cose, anche la nostra esistenza. Sono in circolazione oggi un certo numero di teorie-…..- che spiegano le origini e l’evoluzione dell’universo stesso….Queste leggi hanno una forma specifica e contengono alcune cosiddette costanti universali, cioè alcuni valori numerici,…dei quali non sappiamo, al momento, dare una giustificazione…..

Si può vivere benissimo anche senza saperlo …. . L’uomo però non ha posa e deve interrogarsi su tutto……. cosa sarebbe successo se questa o quella costante avesse avuto un valore diverso. ………Perché noi esistessimo occorreva quindi un valore……. . Ma noi esistiamo e abbiamo certe caratteristiche. Su questo non si discute. Qualcuno ha proposto allora che ogni teoria che tenti di spiegare i valori delle costanti universali naturali debba tener conto del fatto che noi esistiamo. Questo criterio restrittivo da applicare alle possibili teorie fisiche e cosmologiche ha preso il nome di principio antropico. …………………………………………………………………………..

Non si tratta ovviamente di una reincarnazione di un punto di vista teleologico ………. , ma è interessante considerare come l’uomo, animale fra gli animali, abitante di un pianeta orbitante intorno ad una delle innumerevoli stelle appartenenti ad una delle innumerevoli galassie presenti nell’universo, sia stato capace di comprendere una parte almeno dei principi che governano il tutto e si sia accorto di essere arbitro inconsapevole di questioni di rilevanza cosmica come l’entità delle varie costanti fisiche universali. Detto in maniera più sommessa, noi non siamo il fine della creazione, ma la constatazione della esistenza pone un preciso vincolo alla speculazione sulla natura dell’universo fisico.

 

LUIGI DALL'AGLIO

IL CERVELLO DEGLI ANTENATI

Alle origini dell'umanità: parla l'antropologo Fiorenzo Facchini

«L'evoluzionismo da solo non riesce a spiegare l'aumento della massa cerebrale»

«Già a partire dall'Homo abilis è evidente che la specie umana è del tutto unica»

«Detronizzato da un darwinismo che riduce tutto a pura casualità, l'uomo viene rivalutato dalla paleontologia. Le ricerche gli restituiscono una chiara centralità: confermano che l'uomo, in forza dell' autocoscienza e della cultura, è il traguardo dell'evoluzione biologica. Ciò appare in accordo con il principio antropico dell'astrofisica». Il professor Fiorenzo Facchini, sacerdote, ordinario di Antropologia all'Università di Bologna, passa in rassegna un secolo e mezzo di indagini sull'evoluzione, e subito mette in risalto un particolare spesso trascurato: l'uomo preistorico non poteva confondersi con le scimmie, non era mezzo uomo e mezza scimmia e nella sua capacità di pensare e di comunicare non presentava molte differenze rispetto all'uomo di oggi. Queste caratteristiche si ritrovano nella specie umana «fin dalla sua apparizione sulla terra»: anche le primissime società vivevano molto al di sopra delle pure e semplici leggi dell'ordine biologico. C'è cultura nell'uomo preistorico, come ce n'è nell'uomo di oggi. È la tesi sostenuta dal professor Facchini, nel libro Evoluzione umana e cultura, appena edito dall'editrice La scuola di Brescia. Alla luce delle risultanze scientifiche, neanche il comportamento dell'uomo preistorico appare dettato dalla casualità e dalla necessità: l'uomo agisce in un contesto di libertà e di creatività.

Come ammettono, in contrasto con il darwinismo "stretto", non pochi scienziati evoluzionisti. In che modo le ricerche hanno dimostrato che, fin dall'inizio, l'uomo emerge dalla storia dell'evoluzione?

«Fin da Homo habilis, vissuto fra due milioni e mezzo e un milione e mezzo di anni fa, l'identità della specie umana appare chiara sul piano biologico e culturale.

L'uomo si distingue per le maggiori dimensioni del suo cervello (la capacità cranica passa dai 450-500 centimetri cubici delle scimmie antropomorfe e dell'Australopiteco a 750-800), oltre che per la piena capacità manipolatoria della mano. Ma è soprattutto il suo comportamento che rivela la capacità cognitiva di tipo astrattivo, cioè la concettualità». Come si manifesta l'intelligenza, nel buio di anni così lontani?

«I primi utensili realizzati dall'uomo risalgono a due milioni-due milioni e mezzo di anni fa. L'uomo comincia a intervenire sull'ambiente, adotta uno stile di vita per sopravvivere. Si sceglie gli alimenti, prepara il cibo; poi imparerà anche a cuocerlo.

Le più antiche organizzazioni del territorio risalgono a un milione e 800 mila anni fa.

Il focolare è documentato almeno da 500 mila anni. Il comportamento dell'uomo non è fatto di operazioni ripetitive o meccaniche. Già a partire da Homo habilis il comportamento rivela gli elementi essenziali della cultura: da un lato un'intenzionalità, una progettualità, dall'altro un simbolismo, cioè la capacità di far assumere un significato a determinati comportamenti, anche di ordine tecnologico, e di inserirli nel proprio immaginario. È questa una forma di simbolismo che chiamerei "funzionale" e si aggiunge ad altre forme di simbolismo, come quello sociale (il linguaggio) e quello spirituale (l'arte e la religione)». Nel libro lei afferma che già nei primissimi manufatti si nota l'impronta creativa dell'uomo...

«Dalla scheggiatura dei ciottoli lavorato ai bifacciali (le selci a punta, lavorate, spesso elegantemente, sulle due facce) si assiste a un progresso nella lavorazione della selce e si rivela anche una concettualità. Risulta evidente che l'artefice doveva possedere i concetti estetici di simmetria, di linearità, che sono valori astratti. La cultura per l'uomo non è un lusso, è una necessità per la sopravvivenza, anche se la cultura non si esaurisce nella ricerca dei mezzi per vivere». Qual è il suo giudizio in merito alla teoria dell'evoluzione?

«Mi sembra che il modello darwiniano , certamente valido per la microevoluzione nell'ambito della specie, non sia sufficiente a spiegare l'evoluzione nel suo insieme.

La teoria dell'evoluzione ha una sua plausibilità. Lo ha riconosciuto anche il Papa, nel 1996: "La teoria evoluzionista si è imposta progressivamente all'attenzione dei ricercatori". Le questioni che restano aperte riguardano i meccanismi evolutivi. In ogni caso vi sono domande di significato e sulle cause ultime che vanno oltre l'orizzonte scientifico». La teoria evolutiva è in contrasto con la creazione?

«No, se rimane nel campo della scienza che indaga sul quando e sul come e non pretende di spiegare tutto, ignorando o negando la radicale dipendenza degli esseri da Dio creatore. Non si può far dire alla scienza quello che la scienza non può dire.

Se lo facesse, la scienza si tramuterebbe in ideologia (è la posizione dello scientismo, che dà alla scienza un carattere totalizzante, la considera l'unica forma possibile di conoscenza). Ma già Alfred Russel Wallace (che contemporaneamente a Darwin, e indipendentemente da lui, era giunto all'ipotesi della selezione naturale) affermava che la funzione mentale dell'uomo non può essere ricondotta alla teoria darwiniana. Wallace non accettava il declassamento dell'uomo e riconosceva alla specie umana una superiorità sulle altre, la collocava nella posizione più elevata». Dunque, la teoria dell'evoluzione biologica va distinta dal darwinismo "stretto"?

«Il darwinismo stretto non si ferma all'idea di evoluzione, vuole spiegarne i meccanismi. Ora, se si guarda al processo evolutivo nel suo insieme, non è facile spiegare soltanto in termini di mutazione aleatoria-selezione la forte accelerazione avvenuta negli ultimi 400 milioni di anni, quando si sono formati i vertebrati. Ma soprattutto come spiega il darwinismo quel processo fondamentale che è lo sviluppo del cervello negli ominidi? Nel corso di due milioni di anni, le dimensioni del loro cervello si triplicano: si passa dai 450 centimetri cubici dell'Australopiteco africano ai 1.450 centimetri cubici dell'Homo sapiens sapiens. Un incremento straordinariamente rapido, un fenomeno unico nella storia dei viventi». Come può essere spiegata questa crescita del cervello? Può essere un processo fortuito?

«Anche fra i neodarwinisti, alcuni ammettono una tendenza teleologica nel processo evolutivo. Teilhard de Chardin parla di una casualità orientata e vede nel processo di cerebralizzazione culminante nell'uomo la freccia di tutta l'evoluzione». Nel libro, lei analizza tutti i segni della profonda specificità dell'uomo preistorico come soggetto intelligente. In particolare il linguaggio.

«Gli insetti, gli uccelli, i mammiferi, per quanto creature sofisticate, possono usare un linguaggio animale, biologico (emissione di suoni, di odori). Il linguaggio umano non è legato a necessità immediate di ordine biologico, è articolato e simbolico. Grazie al linguaggio, l'uomo è forgiatore e portatore di cultura. Tecnologia, simbolizzazione e linguaggio sono strettamente correlati. L'uomo è technologicus e loquens in quanto Homo symbolicus». Perché un'attesa così lunga, durata milioni di anni?

«Il disegno superiore in base al quale si è svolta l'evoluzione ci conduce in un campo che non è quello delle dimostrazioni empiriche. Per il credente, la realtà creata risponde a un disegno di Dio. E allora diventa anche più chiara l'idea che tutto il processo evolutivo sia guidato da un finalismo».